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Tumore della prostata metastatico: lo scenario sta cominciando a cambiare in meglio

È una delle forme più difficili da trattare tra tutte le neoplasie prostatiche. Stiamo parlando del tumore della prostata metastatico resistente ai farmaci che sopprimono i livelli del testosterone, associato allo sviluppo del tumore. Ma, complice lo sviluppo di terapie a bersaglio molecolare, lo scenario sta iniziando a cambiare in meglio. Obiettivo è una mutazione nota come Brca, la mutazione Angiolina, coinvolta nei tumori del seno e dell’ovaio.

Colpirla utilizzando come primo trattamento la terapia standard a base di enzalutamide in combinazione con il cosiddetto PARP inibitore talazoparib – capace di annullare i meccanismi di replicazione del Dna delle cellule malate – aumenta in modo significativo la sopravvivenza libera da malattia preservando la qualità di vita dei malati. Un risultato ribadito a Chicago nel corso del congresso dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO), il principale appuntamento mondiale dedicato alla lotta al cancro.

Secondo l’ultima edizione de “I numeri del cancro 2022” realizzata dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) ogni anno, in Italia, sono più di 40 mila le nuove diagnosi di tumore alla prostata. Questa forma di cancro è la neoplasia più frequente negli uomini a partire dai 50 anni di età e occupa il terzo posto nella scala della mortalità per cancro, in particolare negli uomini al di sopra dei 70 anni. Se per i casi diagnosticati in fase precoce e per quelli che si sviluppano lentamente le possibilità di cura sono elevate, la vera sfida è rappresentata dal tumore della prostata metastatico.

In base allo stadio di evoluzione si procede con diverse strategie terapeutiche che comprendono la chirurgia, la chemioterapia e l’ormonoterapia. Quando la malattia è in metastasi il trattamento di prima linea prevede la cosiddetta deprivazione androgenica, una strategia in cui vengono somministrati farmaci in grado di inibire la produzione di testosterone, l’ormone che stimola la crescita delle cellule tumorali. Pur essendo una strategia efficace, non di rado accade che la persona non risponda più al trattamento. E’ questo il caso del tumore alla prostata metastatico resistente alla castrazione, la forma di neoplasia prostatica più difficile da curare.

In questi ultimi anni, grazie all’analisi molecolare della malattia, alcune forme resistenti alla castrazione hanno cominciato ad essere affrontate con maggiore successo grazie alla somministrazione dei PARP inibitori, molecole che interferiscono sui meccanismi che la cellula mette in atto per riparare i danni al DNA. E’ questo il caso dei tumori con “difetto di ricombinazione omologa”. La possibilità di interferire con questo meccanismo rende il tumore “ricco” di alterazioni a tal punto da andare incontro a morte cellulare a causa dei troppi danni subiti.

Complice l’accumularsi delle evidenze dell’utilità dei PARP-inibitori in quei tumori che hanno un difetto di ricombinazione omologa, recentemente è stato realizzato un ulteriore trial clinico per valutare l’associazione in prima linea della terapia standard con enzalutamide con il PARP-inibitore talazoparib indipendentemente dalla presenza o meno del difetto di ricombinazione omologa. TALAPRO-2, questo il nome dello studio, aveva come obiettivo la valutazione della progressione libera da malattia (PFS), ovvero il periodo di tempo in cui la malattia pur essendo presente non progredisce. Si tratta di un parametro importante poiché l’aumento della PFS è un indice di efficacia delle cure ed è generalmente correlato non solo ad un prolungamento della sopravvivenza del paziente ma anche ad una migliore qualità di vita.

I primi risultati, presentati in marzo in occasione del congresso ASCO Genitourinary Symposium, hanno dimostrato che la combinazione dei due farmaci ha portato ad una riduzione del 37% del rischio di progressione della malattia o morte rispetto alla sola enzalutamide. Un grande contributo alla sperimentazione lo ha avuto l’Italia, con ben 7 centri ospedalieri coinvolti nel reclutare i pazienti che hanno partecipato allo studio. Al congresso ASCO di Chicago, oltre a confermare i dati ottenuti, sono stati presentati i risultati di un’analisi sulla qualità di vita dei pazienti in relazione al trattamento. Dalle analisi è emerso che il miglior controllo della malattia ottenuto con la combinazione si è tradotto in un mantenimento della qualità di vita. Risultati importanti che dovranno essere ora valutati sul lungo termine. La speranza è che l’allungamento della PFS si traduca anche in un miglioramento della sopravvivenza globale alla malattia.

Redazione

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