La carne fa male. Almeno a leggere le conclusioni dell’Organizzazione mondiale della sanità. Per l’Oms la carne rossa deve essere inserita nel gruppo dei cibi probabilmente cancerogeni. Quella lavorata deve essere considerata cancerogena e quindi inserita in classe 1.
E’ nota l’associazione tra cibi carnei e le patologie tumorali soprattutto il cancro del colon-retto, il secondo per diffusione nel mondo occidentale. Il Fondo internazionale per la ricerca sul cancro (WCRF) ha pubblicato un report dove vengono presentate prove sulla relazione tra consumo di carni rosse o carni trasformate e questa patologia.
Da questo studio è emerso un decalogo in cui si suggerisce di limitare le carni rosse, evitare le carni trasformate. Questa organizzazione non è istituzionale. Pertanto è seguita solo da gruppi scientifici o medici che la conoscono. L’Istituto nazionale dei tumori di Milano ha fatto propri questi consigli e li ha trasformati in una linea di condotta da suggerire ai pazienti all’atto della dimissione.
Quali sono le ragioni per cui la carne farebbe male? La qualità e l’abbondanza degli acidi grassi saturi innanzitutto. Una parte di acidi grassi saturi, ovvero quei grassi a struttura più stabile, è necessaria per diverse funzioni dell’organismo. Quando se ne introduce in eccesso con l’alimentazione questi impegnano il fegato in un lavoro eccessivo. Sono trasportati in giro per il corpo e tendono a depositarsi, tra le altre cose, nella parete delle arterie, là dove esiste già un piccolo danno. In questo modo danno origine alla placca arteriosclerotica che nel tempo non può che progredire e ridurre la capacità di questi vasi di trasportare il sangue. Un secondo problema è legato all’eccesso di proteine. Per digerire le proteine animali, soprattutto quelle della carne rossa, lo stomaco deve abbassare notevolmente il pH, ridurre l’acidità a livello 2, cioè il massimo che si può raggiungere nei processi digestivi.
Se è vero che le proteine si scindono nei singoli componenti, gli aminoacidi, è vero anche che questa produzione acida provoca un’acidificazione generale dell’organismo, a partire dal sangue. Un terreno acido diventa la base per uno stato di salute peggiore e per fare nascere processi patologici.
C’è poi il problema della qualità. La maggior parte della carne usata per l’alimentazione umana deriva da animali ospitati in allevamenti intensivi. Qui passano la loro vita in cattività, senza pascolare, mangiando solo cibi industriali. Per la prevenzione o la terapia, ricevono trattamenti farmacologici. Tra questi ce ne sono molti consentiti, controllati e legali, anche se non si può negare che gli effetti di questi farmaci e i residui degli stessi possano mantenersi all’interno delle carni che poi vengono portate sulle tavole dei consumatori. Le carni trasformate subiscono processi di lavorazione industriale da parte dell’uomo. Si va dall’affumicatura all’aggiunta di sale all’uso di conservanti, passando per la produzione di miscele di carni diverse fino ad arrivare all’impiego della carne separata meccanicamente o di quella poltiglia che si ottiene con la scarnificazione mediante aria compressa delle carcasse di animali e che entra a far parte di prodotti molto diffusi e graditi in particolare dai bambini.
L’OMS e il WCRF si sono limitati a divulgare il risultato di centinaia di lavori scientifici dei quali è difficile dubitare così. In molti casi la qualità del cibo che si compra potrebbe essere messa in discussione. Michael Pollan, autore del libro Il dilemma dell’onnivoro, afferma che “se la gente sapesse com’è fatta la maggior parte del cibo che porta a tavola non lo comprerebbe davvero”.
Il suggerimento che si può dare è circoscrivibile nei seguenti punti. Consumare meno carne in generale, limitandosi a due assunzioni settimanali. Scegliere carne di buona qualità e dunque informarsi su produttori e rivenditori. Imparare a riconoscere la qualità della carne oltre che dall’aspetto anche dal gusto e dalle reazioni del corpo dopo averla mangiata. Limitare ulteriormente l’assunzione di cibi carnei in caso di malattie cronico-degenerative. Imparare per il consumo casalingo l’uso di proteine vegetali.
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